"Ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male" (F. W. Nietzsche)


Morte del secolo "breve"

30.11.2009 12:29

 «Per il poeta Thomas Stearns Eliot “il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un'esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo”. Il Secolo breve è finito in tutti e due i modi». Sono queste le parole con cui nel 1994 lo storico Eric J. Hobsbawm apriva il suo poderoso compendio sulla storia del Novecento, un secolo ritenuto, per l’appunto, “breve”, perché tutto compreso tra la Grande Guerra e il crollo del muro di Berlino. Siamo oggi a 20 anni esatti da quel 9 novembre 1989, quando la Germania dell’Est si ricongiunse con quella dell’Ovest, sancendo la fine della dittatura del proletariato e del “socialismo reale”.

Eppure questo prepotente periodo storico tanto breve non lo è stato. Come 20 anni fa, in questo novembre, un altro muro crolla. È quello dei custodi del Novecento. Se ne sono andati, tutti insieme, tre simboli della cultura, della tradizione, del misticismo. E non è un epitaffio quello che scriviamo, ma una riflessione nata dal loro pensiero, dal loro agire, dalla loro opera. Perché è anche grazie a loro che abbiamo appreso qualcosa del mondo in cui viviamo.

 

Nella notte tra il 30 e 31 ottobre, alla veneranda età di 100 anni (ne avrebbe compiuti 101 un mese dopo), muore Claude Lévi-Strauss. È considerato il padre dell’antropologia, ma concordiamo con Marino Niola, antropologo strutturalista, docente presso l’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, quando dice che piuttosto è colui «che ha fatto dell'antropologia uno dei grandi saperi del Novecento, come Freud fece con la psicanalisi. Non solo una disciplina specialistica. Ma un nuovo modo di vedere l'uomo. Di guardare se stessi nello specchio dell'altro». La scomparsa di Lévi-Strauss apre una miriade di riflessioni, molte delle quali profetizzate dalla sua stessa opera: «Tutte le grandi questioni del presente, dal sovrappopolamento della terra allo scontro di civiltà, dal riaffiorare del mito al ritorno dei localismi, fino alla guerra del velo e alle modificazioni genetiche», dice ancora Marino Niola, «si trovano tutte nei maggiori capolavori dell'antropologo francese, come Tristi Tropici, Il pensiero selvaggio, l'Antropologia strutturale. Con una formulazione sempre provocatoria e anticipatrice che rappresenta l'eredità preziosa dell'ultimo dei maîtres à penser». L’opera più imponente di Lévi-Strauss rimane, con buone probabilità, il corpus che va sotto il nome di Mitologica, al quale appartengono Il crudo e il cotto, Dal miele alle ceneri, Le origini delle buone maniere a tavola e L’uomo nudo. Diventa fondamentale, in questo percorso per la sua ricerca strutturalista, l’analisi delle abitudini alimentari dei popoli, nel tentativo di rendere conoscibile e non banalizzare la differenza tra natura e cultura. La passione per investigare le cosiddette strutture elementari lo ha, però, reso soprattutto un simbolo contro il razzismo, come ricorda Armando Massarenti su Il sole 24 Ore:  «Nel 1971, sorprese l'uditorio con una tesi inaspettata per un antropologo. “L'etnocentrismo”, disse, “non è una cattiva cosa, ed è stupido attaccarlo”. È naturale porre il proprio modo di vivere e pensare al di sopra di un'altra cultura o civiltà che si discosta troppo dai valori e dalle usanze cui siamo abituati». Lévi-Strauss imputa la causa della disparità tra gli esseri umani, infatti, esclusivamente alle scale di valutazione che essi stessi si danno. I “primitivi” non sono visti dal profetico pensatore in uno spirito romantico o, peggio, vittime del complesso di inferiorità. L’aver riconosciuto elementi simili alla base di tutte le culture investigate gli ha, infatti, consentito di parlare al mondo, contrapponendo la riflessione sulla cultura all’ignoranza delle “leggi razziste”. Non lo ha mai detto apertamente ma ha utilizzato la vecchia socratica maieutica, fondata sul suo vissuto, che nel 1941 lo aveva visto costretto a lasciare la Francia per le persecuzioni contro gli Ebrei. «Le culture», dice ancora Massarenti, rievocando l’antropologo belga, «anche le più lontane e “primitive”, sono destinate a comunicare sempre di più tra loro, spingendosi troppo in là nel riconoscimento delle diversità rispetto ai tempi in cui, all'opposto, ognuna di esse considerava se stessa l'unica vera, l'unica umana, e guardava agli abitanti appena di là dal fiume come a “scimmie di terra” o “uova di pidocchio”». In questo discorso, tenuto alla sede dell’Unesco, Lévi-Strauss ha riassunto tutto il paradigma declinato nei suoi studi.

Lo stesso che, attraverso la poesia, ha celebrato Alda Merini. La “poetessa dei Navigli” è morta domenica 1° Novembre a 78 anni nel reparto di oncologia dell'ospedale San Paolo di Milano. «Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta», scriveva. E la follia è stata una delle cifre di tutta la sua vita, avendo conosciuto l'internamento in ospedale psichiatrico, all'inizio degli anni Settanta. Un'esperienza della quale non ha mai parlato con piacere, evitando di sfruttarne i potenziali risvolti commerciali, ma dalla quale ha fatto nascere alcuni testi, raccolti nel 1984 ne La Terra Santa. Il ricordo di Alda Merini è quello di una donna dall’amore incommensurabile, ritenuta dai più una personalità tanto audace quanto irriverente. È sua, però, la più bella testimonianza sul senso della vita rilasciata qualche anno fa a un coraggioso Paolo Bonolis che la volle ospite in una delle sue trasmissioni notturne: «La vita non ha senso, anzi è la vita che ci da un senso, sempre che noi la lasciamo parlare, perché prima dei poeti parla la vita». Le ultime apparizioni pubbliche della Merini sono dovute al maestro Giovanni Nuti, il quale trasse ispirazione per i suoi componimenti musicali dal Poema della Croce, parte della produzione cosiddetta “mistica”, pubblicata con un saggio introduttivo di Mons. Gianfranco Ravasi.

Mitologia per Levi Strauss. Misticismo per la Merini. Entrambe queste necessità dello spirito hanno, però, nell’ultimo scorcio del Novecento, avuto un corpo: quello di Natuzza Evolo. La “donna con le stimmate” nacque nel 1924 a Paravati, una frazione del comune di Mileto, antica città della Calabria, dove Ruggiero il normanno aveva stabilito la capitale della sua contea e la prima diocesi di rito latino dell'Italia meridionale. Da lì non si è mai mossa. È stata una folla oceanica a raggiungerla e a rivolgersi a lei in un bisogno sempre crescente di infinito, il cui picco è stato raggiunto dai 15.000 presenti ai suoi funerali. Una piccola donna che diceva di sé: «Io sono un verme della terra» e che, per questo, è accomunabile ai canti della Merini. L’antropologo Vito Teti, docente di Etnologia e Direttore del Dipartimento di Filologia all’Università di Cosenza, così la ricorda: «Il fatto che lei abbia avuto la facoltà di parlare con la Madonna e i defunti la rende una figura eccezionale che risponde anche alle esigenze delle culture popolari. D’altra parte, al di là di questi aspetti mistici e miracolosi, Natuzza è stata vista sempre come una grande Madre. Quello che viene a mancare adesso è la donna che sta vicino alle persone, che aiuta e che conforta e che non offre scorciatoie». Le parole di Teti scendono, poi, nell’intimo del suo rapporto con la donna: «Il suo misticismo e la sua diversità non inquietavano le persone, anzi le avvicinavano. L’ascoltavo con un certo turbamento quando parlava. Mi accorsi del profumo di rose e di fiori che Natuzza aveva in casa. Tornando da Paravati, dopo l’incontro con Natuzza, mi sembrava di vedere rose dappertutto. Mi sono poi reso conto che le rose c’erano per davvero: ecco - compresi - Natuzza riusciva ad infondere nelle persone che incontrava la capacità di vedere il mondo».

La capacità di vedere il mondo. Quella stessa che è chiesta ai poeti, come ad Alda Merini. Quella che provano a percepire e diffondere gli studiosi di scienze sociali, come Claude Lévi-Strauss. «Anche grazie a Natuzza», conclude Teti, «la Calabria manda un’altra immagine di sé, che non è quella della devastazione e della violenza, ma quella dell'accoglienza e della solidarietà verso le persone».

È questa immagine che sembra andarsene ora con il volto audace e coraggioso di questi tre protagonisti della storia, personaggi che ci hanno accompagnato nelle letture scolastiche, nelle ricerche di poesie che in classe non ci avrebbero fatto mai leggere in nome di un malcelato Puritanesimo (la Merini parlava anche di sessualità in maniera viscerale), nelle discussioni troppo televisive di chi lottava tra cultura e natura con un occhio all’auditel. Non è un caso, forse, che mentre la stampa abbia riservato fiumi di inchiostro alla Merini, righe di commiato a Lévi-Strauss e qualche fondo alla Evolo, il popolo abbia fatto quasi il contrario. L’antropologo, nella sua veste di osservatore partecipante, è silenzio per la gente comune e urlo per gli uomini di scienza. La mistica, snobbata dalla cultura alta, è osannata dalle masse popolari. Il poeta è il trait-d’union tra i due, il fool, il boarder-line, la chiave di lettura del mondo tra la sapienza alta e il “non senso” della vita. Così se ne va il Novecento. «Con le lune dei suoi amori / Con il vento delle sue estati / Ballando si allontana / Coi suoi racconti e i suoi segreti / In silenzio per sembrare / Una musica distante / Come l’orchestra di una nave / Che scompare all’orizzonte / Con i suoi giorni tutti uguali / E quelli un po’ speciali / Che sono diventati anniversari / Con le sue poesie d'amore / Quelle solo sussurrate / Quelle che non son state scritte mai / Novecento auf wiedersehen, goodbye» (Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò, Tony Esposito).

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