"Ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male" (F. W. Nietzsche)


Scena seconda

13.03.2009 00:00

Un gioco di luci mette in evidenza la scena. Una stanza di una casa di un moderno condominio. Una grande libreria sulla destra e, al suo fianco, una postazione con tv, dvd recorder, home theatre, decoder e tutto quanto occorre per una domenica sul letto. Il letto è di fronte ed è a una piazza e mezza. Tra il letto e la libreria, frontale al pubblico, c’è una finestra, coperta da una mantovana leggera di colore arancio. Accanto alla finestra, una scrivania con sopra un notebook, un portaoggetti, un telefono, forse due, le sigarette nel portasigarette e alcune foto. Accanto al letto, un comodino con libri, una rivista, un’abatjour e cinque telecomandi per comandare tutto ciò che si vuole, tranne la vita. Due le uscite, a destra il bagno, a sinistra la porta.

Al termine della musica, lui rientra. Ha tra le mani un telo con cui si asciuga il viso. Indossa solo dei bermuda. Si sdraia sul letto. Si vede che mentre la sua mano cerca il telecomando dell’hi-fi, la sua mente resta fissa su un solo pensiero.

 

Lui: Meglio spegnere tutto.

 

Spegne l’hi-fi. Butta via l’asciugamano sul letto e si porta le mani agli occhi.

 

Lui: (parlando a se stesso e lentamente aumentando il tono di voce tra il sarcastico ed il drammatico) Su, via! Uscire, andare in strada, far entrare nuova aria nei polmoni, respirare la vita e, se ce n’è ancora bisogno, scorrete pure, o lacrime!

 

Prende una t-shirt dai cassetti sotto la libreria, ma ora pensa a voce alta.

 

Lui: Cento scalini mi separano dall’aria aperta. E non sono come i cento passi di Peppino Impastato. Sono cento scalini che non potranno cambiare nulla, né la storia della mia città, né la mia, né quell’impercettibile attimo dell’universo che in questo momento mi appartiene.

 

Silenzio.

 

Lui: Un’unica parola continua a occuparmi la mente, i pensieri, tutto. Una parola inutile, vuota di significato, come ogni sua possibile risposta, eppure è quella, sempre quella, sempre la stessa.

 

Parte la musica di “Come sei veramente” di Giovanni Allevi. Entra lei da sinistra, vestita con una gonna lunga di colore nero e coperta da una maglia. Il modo di dialogare dei due è sempre quello di non guardarsi negli occhi.

 

Lei: Di fronte alla nudità dei sentimenti, di fronte all’evidenza, i motivi, le giustificazioni erano del tutto inutili.

 

Lui: Lo so benissimo.

 

Lei: Eppure avresti voluto dare una spiegazione razionale a quel dolore, a quel graffio che continui a sentire dentro, a quella lacerazione che veglia su ogni tuo respiro e che, ogni notte e ogni giorno, continua a portare, infranto dalla tempesta, l’eco di uno stesso nome.

 

Lui si siede di nuovo sul letto. Lei resta immobile.

 

Lui: Andate e ritorni, i viaggi, il non fermarsi un istante, occuparsi di mille cose per tenere lontano l'incubo del vuoto del tempo ed evitare di riflettere. Nulla più di una convinzione superficiale. Basta un attimo di silenzio, il voltarsi di una pagina, l'accantonamento momentaneo di altre attività per far fiondare i pensieri.

 

Lei: A volte è sufficiente una canzone, altre volte uno sguardo, quattro passi…

 

Lui si accende un’altra sigaretta.

 

Lui: …o una sigaretta mentre sei sdraiato su di un letto e tutto ciò che potrebbe essere considerato come "vita" diventa malinconia.

 

Lei si volta verso di lui quasi infastidita.

 

Lei: …o peggio ancora "rimorso".

 

Lui si alza, indossa gli occhiali da sole e fa per uscire. Si volta, la guarda per un istante e le chiede la domanda che gli rode dentro.

 

Lui: Sei felice?

 

Silenzio.

 

Lei: Con te non lo sono mai stata!

 

Lui: (arrabbiato) Non sei neppure mai stata fedele, se per questo.

 

Lui esce dalla porta alla sua sinistra. Lei resta lì. Rimasta sola, completa la battuta.

 

Lei: Avrei voluto esserlo. Con tutta me stessa. Per il tuo cuore.

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