"Ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male" (F. W. Nietzsche)


In vino veritas, in veritate vini

26.08.2009 21:34

Status symbol. Significante sacro. Ricchezza dello spirito ed ebbrezza del corpo. «Il vino è come la vita per gli uomini purché tu lo beva con misura» si legge nel libro sapienziale del Siracide. Le proprietà di questo “bravo spiritello” se “bene usato” (cfr. W. Shakespeare, Enrico IV) sono note da sempre. Nell’era dell’instant messaging l’invito a rallentarsi per scoprire il gusto può apparire anacronistico, eppure dai sentori che parlano di introspezione, comunità e terroir con l’aiuto del calice si spalancano conoscenze che offrono nuovi spunti alla bellezza della vita. E si comprende che usare il nettare degli dèi per annebbiare la mente è un’operazione di profonda illogicità.

La ricchezza dei vitigni campani è nota al mondo. Volendo proporre un itinerario che tenga conto di saperi e sapori dei nostri grappoli, non si può che iniziare dai tre Docg regionali, tutti irpini. Il Taurasi, ad esempio, è senza dubbio il più prestigioso bianco del Mezzogiorno, il primo a ricevere la Denominazione d'Origine Controllata e Garantita. A seguirlo sono stati, poi, il Greco di Tufo e il Fiano di Avellino, quest’ultimo noto sin dall'epoca romana con il nome di Vitis Apiana. Sembra, infatti, che le api ne siano particolarmente ghiotte: buongustaie!

Un discorso a parte merita la Falanghina. Meglio: LE falanghine. Sono, infatti, secoli che si svolge tra il Taburno e i Campi Flegrei la diatriba sulla “vera” regina bianca campana. Per i nativi dell’agro puteolano, infatti, essa sarebbe stata domesticata dai discendenti dei Cumani, i quali la sollevarono da terra appoggiandola a pali di legno, detti falangi, dai quali trarrebbe il nome. Gli attuali eredi dei Sanniti reputano, invece, che l’etimologia - e dunque l’allevamento in Campania - sia da postdatarsi ad epoca romana, quando ci si accorse che gli aromi di questo vino erano simili a quelli del Falerno (Falernina).

Quale che sia la verità, resta costante un punto in comune: la qualità. Equivalente vip rosso della Falanghina è l’Aglianico, vitigno introdotto in Italia intorno al VII secolo a.C., prodotto principalmente da uve allevate a ridosso della Valle Telesina. Non abbiamo certezze etimologiche in proposito, in quanto il nome potrebbe rimandare tanto all'antica città greca della costa tirrenica, Elea (Eleanico), quanto più semplicemente alla parola Ellenico. Sia Aglianico che Falanghina del Taburno rientrano nella denominazione Igt Beneventano.

Tra i vini più ricercati della nostra regione vi è, poi, il Falerno del Massico, probabilmente il più apprezzato (e costoso) sin dall'antichità. I Romani erano soliti conservarlo in anfore chiuse da tappi muniti di targhette indicanti l’annata e la provenienza. Secondo Silio Italico, poeta del I sec. d.C., la sua origine è mitica. Scrive, infatti, che Bacco, sotto mentite spoglie, chiese ospitalità al vecchio Falerno, il quale, commosso dalla sua generosità, fece nascere sulle pendici del Monte Massico viti lussureggianti. Oggi questo vino, prodotto in soli 5 comuni dell’agro casertano, è una delle perle dell’enologia nazionale, dal sapore pieno nei tipi rossi (ottenuti da uve Aglianico e Primitivo), fresco e aromatico nel tipo bianco (Falanghina in purezza).

Un viaggio rispettoso della storia vitivinicola in Campania non può, però, che concludersi con uno sguardo alla città che negli anni ’80 ha rappresentato il nome stesso del vino. Per le genti della terra “felix”, infatti, il prezioso liquido si chiamava Solopaca e veniva dalla sua celebre Cantina Sociale. Senza entrare nel merito della qualità dei prodotti, che pure vanno dal popolare vino da tavola alle recenti produzioni più ricercate, Solopaca è il simbolo di quanto possa dentro un bicchiere rivelarsi un’identità. Basti pensare che sin dal ‘700 i viticoltori di questa parte dell’attuale provincia beneventana solevano offrire a metà Settembre le primizie dei loro vitigni alla Vergine Addolorata. Negli ultimi anni, quest’abitudine si è consolidata dando vita a una festa dell’uva dall’indiscutibile valore artistico oltre che socio-antropologico. I devoti, infatti, realizzano con i propri grappoli d’uva una serie di carri allegorici, primo fra tutti quello raffigurante l’Addolorata. L’icona così ottenuta porta inevitabilmente alla mente l’affresco di Bacco ritrovato nella Casa del Centenario a Pompei. Cosa dire? Bacco e Venere cambiano nome, talvolta forma, possono invertire ruoli e canoni estetici ma, di certo, lasciano immutate natura ed essenza. A noi il “gusto” di scoprirle.

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