"Ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male" (F. W. Nietzsche)


Ritmo di contrabbando

24.06.2009 18:29

 Una digressione ai limiti tra storia, antropologia e musica popolare, alla scoperta di uno dei più antichi rituali del nostro Sud. Un viaggio in Puglia e nella questione meridionale alla scoperta del tarantismo.

 

Era il 1961 quando, in un’Italia mai come allora afflitta dalla questione meridionale, Ernesto De Martino diede alle stampe il frutto del suo lavoro di ricerca nella Puglia figlia della Magna Grecia e ancora non troppo conscia di essere parte integrante e costitutiva della allora nascente Repubblica Italiana. La terra del rimorso, non a caso emblematico il nome che reca il volume, è uno studio fondamentale al pari e più delle inchieste parlamentari che, in quei tempi, affrontavano i nodi della grande questione nazionale. Purtroppo troppo spesso senza l’aiuto di chi, come i sociologi o gli antropologi, avrebbe potuto dare una svolta fondamentale alla percezione del dramma.

Perché di dramma si tratta. Il rimorso è, infatti, per De Martino, non solo il reiterato periodico morso della tarantola, pronta ogni anno a riconoscere le proprie vittime per innescare in esse il rapsodico movimento, ma anche e soprattutto il rimorso che dovrebbe sentire verso la condizione di quella terra chi quella questione l’ha sollevata senza mai dare adito a risoluzione. Il rimorso si trasforma, dunque, in rimosso, procedimento per mezzo del quale si tende ad accantonare nei meandri della storia tutto ciò che è fastidioso da elevare agli onori della cronaca. È una storia che si ripete, oggi, nelle nostre aule parlamentari, nelle sedi delle regioni, nei palazzi del governo e degli enti locali, dove ancora una volta, ora più che mai grazie alle infinite vie del mezzo televisivo, ci si arrende nel porre sotto i riflettori solo ciò che ci fa comodo, distogliendo l’attenzione da coloro che non hanno voce e verso i quali non si hanno le competenze per portare in maniera adeguata i nodi al pettine: ci si impiegherebbe troppo tempo. Più della durata di una legislatura che, nella migliore delle ipotesi, è la prospettiva più lontana per una “classe politica endemicamente corrotta”, come la definiva già a fine ‘800 Benedetto Croce. Eppure, se di storia stiamo parlando, questa potrebbe apparire un’altra storia.

Torniamo, pertanto, al tarantismo. Torniamo a Galatina, in provincia di Lecce, luogo oggi celebre per l’industria alimentare dolciaria, presso il quale esisteva (ed esisterebbe ancor oggi senza il divieto ecclesiastico) una cappella dove, nei giorni del passaggio tra la stagione primaverile e quella estiva, con il culmine nella festa dei Santi Pietro e Paolo, il 29 giugno, viene celebrato un personale, singolare e straordinario rito: il “pellegrinaggio” delle tarantate. La cappella in questione è dedicata a San Paolo che – si dice – sia sopravvissuto a Malta al veleno di un serpente. È per questo motivo che, ogni anno, donne provenienti da tutto il Salento si recano a bere l’acqua di una fonte posta accanto alla cappella (oggi chiusa per ordinanza Sindacale) per essere liberate dal ri-morso del leggendario animale. Come per una vera malattia, esiste tutto un processo sintomatico, diagnostico e di prognosi, il quale è stato ben descritto da De Martino nella sua indagine. La tarantola, un leggendario ragno di cui non si è ancora certi della presenza in Puglia, avrebbe l’abitudine di mietere vittime del suo morso solo in determinate e ripetibili circostanze: i lavori della terra, i lavori domestici che richiedono l’uscita all’esterno dell’abitazione e situazioni simili. La donna (è solo il sesso femminile ad avvertire questa ferita) appena morsa dalla tarantola, sente irrefrenabile l’istinto di mettersi a “scazzecare lu pere” (battere il piede), girare in tondo, saltellare. In una parola: “danzare” cercando di allontanare da sé l’animale nefasto. Ma la tarantola è un fastidioso ingannatore che, una volta iniettato il suo “veleno”, lo fa diffondere poco alla volta nelle vene, richiamato solo da una musica e, talvolta, da un colore. A seconda del tipo di ragno, infatti, la vittima riesce a liberarsi attraverso la danza soltanto quando riconosce lo strumento di riferimento. È di estremo fascino il rituale attraverso il quale avviene tale riconoscimento. Un ensemble di suonatori della tradizione (tutti uomini, ovviamente) viene portata al cospetto della tarantata, la quale sente distintamente il suono dei diversi strumenti, camminando come in trance dinanzi a essi. Non appena ascolta, poi, le note dello strumento coreutico, inizia a muoversi freneticamente richiamando attraverso la danza l’esperienza traumatica del morso che si vuole esorcizzare. Laddove questo riconoscimento tardasse ad arrivare, ecco che le altre donne della sua comunità presentano veli e oggetti di vari colori, per accelerare l’identificazione. I meglio informati sostengono, inoltre, che a ogni colore corrisponda una natura scientifica dell’episodio del morso che avrebbe risvegliato elementi trascendentali nella vittima.

La tarantola è, dunque, voce profetica di un territorio e di una vita, è il modo per liberare il proprio animo dall’oppressione dei giorni sempre troppo uguali a se stessi, è il momento di esplosione della festa del sole estivo che, per essere accettato da una società che tende solo a compiangersi e ad esternare la formalità, deve essere ritualizzato e inserito in formule di religione ordinaria, è la negazione della propria questione esistenziale, prima ancora di quella meridionale.

Come ben ricordano i demologi Domenico Scafoglio e Simona De Luna nella ricerca alla base del loro volume La possessione diabolica, vi è: «la difficoltà di collocare il tarantismo, una forma di possessione che De Martino (La terra del rimorso, 1961 - ndr) considera esorcistica e La Passade (Intervista sul tarantismo, 2000 - ndr) invece ritiene adorcistica, in quanto la forza esterna viene introiettata piuttosto che espulsa». A 40 anni di distanza dalla prima ricerca, dunque, la taranta non è più la danza per scacciare il male, ma il modo per evocare il bene e recuperare il contatto con le proprie radici per evitare l’alienazione, troppo spesso unica risoluzione della civiltà globale. Lo testimoniano i numerosi gruppi, caso raro di unione di giovani e adulti, che durante le feste popolari e ne La Notte della Taranta (che, nel mese di Agosto, dopo un giro in Salento, si chiude a Melpignano) si ritrovano a bere vino e suonare i ritmi cadenzati del tarantismo coreutico.

Perché, come scrive Eugenio Bennato nella sua canzone Ritmo di contrabbando: «Quando suona la taranta è il mio Sud che dal suo ghetto sta sfidando tutto il mondo col suo ritmo maledetto, sta sfidando anche l’inferno il mio Sud scomunicato: quando suona la taranta, quella musica è peccato».

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