"Ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male" (F. W. Nietzsche)


Un’alimentazione giusta per tutti. È un’utopia? PARTE PRIMA – IL TORMENTO – LA SINOSSI DI “REPORT” del 30.11.2008

01.12.2008 00:00

Compriamo il cibo nei supermercati. Ma questo, ad occhio, lo sapevamo già. Il dato risultante dall’inchiesta di Michele Buono e Piero Riccardi per l’ultima puntata del 2008 della trasmissione di Rai Tre, Report, era che il 70% di ciò che finisce sulle nostre tavole arriva dagli scaffali dei grandi magazzini. Ciò che forse è meno noto è, però, il fatto che qualsiasi etichetta noi scegliamo molto spesso è prodotta da un unico stabilimento.

Tutte le catene di supermercati italiani sono, infatti, legate a sole 5 grandi supercentrali d’acquisto. I pomodori pelati, ad esempio, vengono prodotti quasi tutti ad Angri e le grandi firme dell’industria alimentare spesso in Campania non ci sono mai state o, comunque, non hanno sedi. Preferiscono semplicemente acquistare da terzi vendendo, attraverso la pubblicità, un’immagine olografica del nostro territorio. Quali sono i rischi di questo sistema? Facile a dirsi! Il primo è il lo sfruttamento della manodopera bracciantile spesso affidata ad immigrati extracomunitari non regolarizzati. Per ogni giornata di lavoro gli operai della terra ricevono circa venti euro di cui poco meno di dieci ritornano nelle tasche dei loro “committenti” per gli spostamenti ed il vitto e l’alloggio in fatiscenti baracche. Il secondo rischio che, però, dovrebbe far storcere il naso anche ai meno avvezzi ai problemi sociali riguarda l’ecosistema. Per ottenere una produzione quanto più vasta possibile, infatti, i contadini sfruttano le terre attraverso l’utilizzo di fertilizzanti chimici che danneggiano irreparabilmente l’ambiente, contrariamente a quanto credeva il teorico di questo sistema produttivo, il chimico Justus von Liebig, vissuto in Germania nell’800.

Nell’ultimo decennio è diminuito di tre volte l’utilizzo di rame e zolfo, usati sin dall’antica Grecia per fertilizzare i terreni, a favore del mancozeb, il re dei pesticidi. È di qualche settimana fa la notizia che in Italia sono scomparsi duecentomila allevamenti di api su un totale di due milioni. «Se tutte le api morissero, all’uomo resterebbero quattro anni di vita» affermava Albert Einstein, in quanto verrebbe a mancare l’intero ciclo della natura essendo esse le responsabili dell’impollinamento dei fiori che dà poi origine ai frutti. Un’analisi condotta dalla Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna ha rivelato che ben 24 api su 27 analizzate sono decedute per l’inalazione di pesticidi utilizzati nella concia delle sementi e che il 47% della frutta presa in esame presenta da uno a nove residui di mancozeb e prodotti simili. È dimostrato scientificamente che l’assimilamento ripetuto di tali sostanze, anche in piccola quantità, produca effetti estremamente nocivi all’uomo. Il mancozeb, in particolare, è una delle prime cause dell’insorgere di leucemie, tumori della mammella e varie altre patologie tumorali.

Secondo Maria Fonte, docente di Economia Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, l’agricoltura biologica è da preferire anche economicamente perché «utilizza le risorse naturali con metodi che ne permettono la riproduzione ciclica», mentre «il prezzo basso che paghiamo ai supermercati ha sfortunatamente costi più alti». È d’accordo con lei anche Wolfgang Sachs del Wuppertal Institute for Climate, il quale afferma che il circolo vizioso voluto dall’industria alimentare impone agli agricoltori di garantire una produttività del terreno tale da riuscire a ricavarne le spese anche ad un prezzo estremamente basso imposto dai buyers.

Un prodotto in forte crisi a causa di un disciplinare che impedisce di piegarsi a questa insana legge è il Parmigiano Reggiano, il quale viene venduto alle supercentrali d’acquisto a non più di sette euro al chilo per essere, poi, rivenduto come “prodotto civetta” (di richiamo) nei supermercati, ma che costa al produttore almeno un euro in più. Si sono, invece, piegati al mercato molti coltivatori di patate del territorio campano, costretti a vendere ai loro grandi acquirenti anche al prezzo di due centesimi al chilo. La notizia più sconvolgente arriva, però, dalle mense dove scopriamo che la spesa per un pranzo completo somministrato agli alunni delle scuole, ai degenti degli ospedali o agli impiegati pubblici può variare dai due ai quattro euro, con risultati di utilizzo di prodotti di qualità scadente che possono portare, ovviamente, conseguenze estremamente dannose per la salute.

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